giovedì 2 maggio 2013

Iaban’i Boto Misa, il contadino malgascio che «collaborò» con i bianchi del trattore e fu punito dalla sua gente


L’avventura raccontata da Davide Boschi

L’avventura raccontata da Davide Boschi è un capitolo del suo libro In aqua veritas, pubblicato dal Gruppo Albatros Il Filo, la cui uscita è prevista a settembre. A Davide, che vive e lavora a Fidenza, chiediamo per quale ragione all’inizio degli anni Ottanta si trovasse in Madagascar. «Feci servizio alternativo al militare, quando uscì per la prima volta una legge che consentiva di evitare l’obiezione alle armi (unica opzione possibile fino al 1980-81 per non svolgere il normale servizio di leva), prestando un servizio appunto alternativo all’addestramento per l’uso delle stesse, senza per questo obiettare in coscienza all’impiego delle medesime in senso assoluto. Sembra una cagata, ma in un Paese come il nostro fu una notevole “evoluzione”. Sinceramente non so che fine abbia fatto questa legge, ma fu in quel preciso contesto che la mia partenza ebbe luogo. La mia “ferma” alternativa doveva durare un minimo di due anni, ma nel mio caso ne durò quattro. Il primo anno lo passai in Italia, presso le case della carità di don Mario Prandi e una «scuola» di agricoltura rurale per l’Africa. Questo periodo servì anche all’organismo di R.T.M. (Reggio Terzo Mondo) per valutare le mie attitudini psichiche, prima di spedirmi in luogo tanto remoto. I tre successivi li trascorsi interamente in Madagascar, con base alla Fondation medicale d’Ampasimanjeva, lungo la costa sud orientale. Una volta, passando per Tanà (Antananarivo), la capitale,  telefonai a casa. Mi costò l’equivalente di 104 mila lire (qualcosa come quattro o cinque mensilità dei miei amici di Ampasimanjeva). Piangerei ancora oggi dalla rabbia. Non telefonai mai più».

Iaban’i Boto Misa, il contadino malgascio che «collaborò» con i bianchi del trattore e fu punito dalla sua gente
di Rahalakely Davida *
Lo vedevo arrivare, lungo il sentiero di terra rossa che si apriva nella fitta vegetazione, con l’inconfondibile incedere di chi aveva camminato per tutta la vita. Magro come la fame, con le gambe ossute e sottili come due canne di bambù che gli spuntavano da un perizoma lacero, sotto un «akanjo be» (copribusto tribale) tessuto con la paglia di rafia.
L’inseparabile machete dal manico lungo, appoggiato a bilanciere su una spalla, reggeva il fagotto da viaggio, anch’esso intrecciato con la stessa fibra vegetale del vestito, mentre la vecchia mano color palissandro, percorsa da mille cicatrici e rughe nere, ne controbilanciava il peso.
C’era ancora una parvenza di forza che emanava da quella figura anziana, quella forza che non si vede ma che lascia intuire la sua presenza. Forse proveniva dai piedi, enormi, a pianta larghissima e decisamente sproporzionati rispetto al resto del corpo. Le migliaia di chilometri percorse da quei piedi, che non avevano mai conosciuto calzature, avrebbero disintegrato qualsiasi pneumatico e, a dispetto delle gambe, nessuno che li vedesse avrebbe mai osato definirli «dolci». Quando raggiungeva la soglia di casa mia, dopo aver percorso i 24 chilometri che la separavano dalla sua capanna nel cuore della foresta, allungava la mano in religioso silenzio per dare inizio al lungo saluto che dovevamo scambiarci e celebrare sempre, nella circostanza di quegli incontri.

Si trattava del «Finaritra» (parola intraducibile). Una serie di domande e risposte rituali che strutturavano questo singolare e complesso saluto, caratteristico solo della tribù degli Antaimoro. A Finaritra concluso, talvolta, mi chiedeva educatamente il permesso di potersi sedere per riposare un po’. Si scusava dicendo che ormai era diventato vecchio, quasi a lasciarmi intendere che da giovane non si sarebbe certo dovuto riposare dopo una passeggiatina del genere.
Il suo nome, tradotto in lingua italiana, significa: «Il padre di Boto Misa» (Boto Misa era il primo dei suoi figli).
Questo perché nella foresta del Madagascar, dove egli era nato e vissuto, ogni persona col trascorrere degli anni perde progressivamente il proprio nome di gioventù, assumendo quello dei figli più grandi. Maschi o femmine che siano. Nella tribù degli Antaimoro la vita umana è considerata un breve episodio, che può assumere valore in un contesto più grande solo nella misura in cui prosegue anche dopo di noi, attraverso ciò che abbiamo generato e lasciato in eredità a questo mondo. I figli, a pieno titolo, fanno parte di questa eredità.
Iaban’i Boto Misa era considerato da tutti «Olona Masina» (uomo salato), ovvero: un santo.
Era un profondo conoscitore del rito ancestrale, delle usanze della tribù, ma la sua straordinaria intelligenza, già intercettata in passato da un fervido etnologo gesuita, gli aveva consentito di comprendere il significato della religione cristiana e della sua liturgia. Il suo coraggio poi, lo aveva spinto a tentare di coniugarne il valore umano con quello del rito tribale, consacrandolo catechista del villaggio.

La scelta di votarsi in qualche modo al cristianesimo e alla «cristianizzazione» della sua gente, gli aveva procurato diversi nemici, almeno fra gli indigeni più conservatori. Infatti, l’animismo originario di questo popolo era insito in ogni loro quotidiano gesto, dalla coltivazione delle risaie alla pesca nel mare o nel fiume, fino alle regole che governavano la convivenza sociale.
Molte delle antiche usanze che riguardavano la coltivazione, ad esempio, erano anche alla base della deficienza alimentare e delle precarie condizioni sanitarie in cui versava la popolazione e il tentativo di cambiarle convertendole in abitudini più sane e produttive spaventava i più timorosi, così come faceva incazzare i più bellicosi.
Periodicamente qualche bastardo incendiava la casa di Iaban’i Boto Misa, fatta di legno, cortecce e foglie, oppure dava alle fiamme i raccolti delle sue risaie, con gli alberi da frutto, le piante di caffè o quelle di garofano. Questi attentati gli rendevano la vita un vero calvario. Inoltre, contribuivano ad ingigantire il suo profilo, per così dire spirituale, sortendo un effetto contrario a quello per il quale venivano concepiti e portati a compimento. Ormai, per annientare Iaban’i Boto Misa e, quelle ritenute le sue velleità progressiste, non restava che ucciderlo. E questo, lui lo sapeva bene. Nonostante ciò, anche quel giorno era venuto fin da noi, alla Fondation medicale d’Ampasimajeva, per parlare di un progetto che lo riguardava molto da vicino e del quale gli avevamo già accennato tempo prima: si trattava di costruire un barrage (uno sbarramento in terra battuta) che avrebbe  racchiuso le acque piovane in un piccolo bacino, il quale si sarebbe formato a monte delle sue risaie.


Un canale «deversoir» scavato a una certa quota avrebbe consentito di far defluire a valle delle risaie stesse l’acqua delle grandi piogge, salvando i raccolti dalle inondazioni, mentre qualche tubo galleggiante avrebbe attinto l’acqua dal bacino di raccolta per una irrigazione più calibrata nella stagione secca, convogliandola in un canale più basso che avrebbe alimentato direttamente i terreni coltivati.
Si trattava insomma di una vera e propria innovazione tecnologica che non badava certo all’umore degli spiriti e non teneva in nessuna considerazione il loro eventuale parere. La realizzazione di questa piccola opera rurale nella foresta, doveva servire come esempio per la popolazione locale, a dimostrare la possibilità di avere qualche ragione contro le ingiurie delle stagioni che, già a quei tempi e in quel luogo così remoto della terra, non erano più quelle di una volta.
Nel contempo però, avrebbe attirato su Iaban’i Boto Misa le ire e l’invidia dei suoi nemici, pronti ad incolparlo per ogni genere di disgrazia che fosse capitata alla tribù, dai fulmini alle esondazioni del fiume, dalle malattie ai decessi, tutto causa il suo atteggiamento poco accorto al volere degli spiriti degli antenati.
A dire il vero anche altre persone erano in seguito venute a chiederci di costruire qualcosa di simile sulle proprie risaie, ma noi avevamo pochissimi mezzi e ancor meno esperienza. Dovevamo provare con gente affidabile, e su risaie lontane dai villaggi. A riaccendere l’interesse per il «progetto barrage» era stato l’arrivo dall’Italia del nuovo trattore, con tanto di escavatore posteriore e pala anteriore, che io e Giorgio eravamo andati a sdoganare nel lontano porto di Tamatave. Un viaggio epico, durato 15 giorni, di cui una settimana interamente trascorsa al volante del trattore stesso, sulla via del ritorno.
A bordo di questo potente prodigio dell’ingegno umano avevamo fatto un rientro trionfale al nostro ospedale nella foresta, attraversando il villaggio di Ampasimanjeva con un codazzo di gente e di bambini pericolosamente appesi ad ogni parte del mezzo agricolo che non ruotasse.

Cominciammo i lavori in piena stagione secca, l’unica durante la quale era possibile raggiungere col trattore le terre di Iaban’i Boto Misa. Quattro ore di viaggio ci separavano da quelle lontane colline di «brousse»  (una sorta di savana malgascia) e le impiegavamo percorrendo prima la strada lungo il fiume e poi deviando a nord, lungo il tracciato di una vecchia e ormai invisibile pista risalente ai tempi della colonia. Il percorso e le condizioni di questa «strada» avrebbero scoraggiato anche un team del Camel Trophy.
Provvedemmo così a sistemare alcuni guadi e a scavare qualche passaggio in costa alle colline più ripide, per non dover rischiare di lasciarci la pelle o anche solo il trattore a ogni viaggio. La capanna di Iban’i Boto Misa, in mezzo a quell’immensità selvaggia e deserta, si stagliava all’orizzonte sulla cima di un rilievo erboso, con la tipica «architettura» che contraddistingue le abitazioni Antaimoro: due costruzioni adiacenti con lo scheletro in legno, le pareti foderate di corteccia di ravinala (palma a ventaglio endemica e simbolo del Madagascar) e la copertura del tetto, a doppio spiovente, rivestita con le grandi foglie della stessa palma. Ognuna con due ingressi perfettamente orientati sull’asse est ovest, dove la porta occidentale fungeva da entrata e uscita per i vivi, mentre quella orientale era solo l’uscita per i morti.
Le due capanne sarebbero state nei giorni a venire il nostro unico rifugio, la nostra casa. Quella costruita per noi era la più nuova, profumava ancora di rafia e di rapaka, di stuoie intrecciate da poco, di vegetazione che l’uomo aveva estratto dall’ambiente naturale che lo circondava per forgiarla ai suoi bisogni. Un prodigio di simbiosi fra l’essere umano e il creato. Imparai ben presto ad avere più considerazione degli spiriti degli antenati, che forse, avevano davvero qualcosa da insegnarci. A ogni viaggio portavamo con noi un po’ di sale, dell’olio e qualche gallina, con un bel sacchetto di riso a parte.

La moglie di Iban’i Boto Misa trasformava queste poche cose in piatti succulenti oltre ogni immaginazione, che divoravamo senza un minimo di educazione, incuranti del fatto che tali quantitativi di cibo, da quelle parti, avrebbero sfamato intere famiglie e non due sole persone. All’ora di pranzo ci sedevamo per terra nella nostra capanna, mentre dall’altra, dove fra i tre sassi del focolare qualcuno cucinava, arrivavano i bambini che ci portavano i piatti e le foglie di palma con il riso e il «contorno» di pollo. Furono giorni indimenticabili, di quelli che lasciano tracce nitide nella memoria, nelle viscere, e nell’anima.
Il barrage cresceva lentamente. Io con l’escavatore estraevo la terra dal fianco della collina settentrionale, poi, sollevati i piedi idraulici del trattore, Giorgio la distribuiva con la pala nell’avvallamento che la divideva da quella meridionale. La piccola diga avrebbe avuto un fronte piuttosto corto, ma un’altezza tutto sommato considerevole, nel tentativo di ottenere un bacino sufficientemente capiente.
Il lavoro durò circa sei mesi, durante i quali partivamo all’inizio di ogni settimana per recarci sul posto e ritornavamo a casa nostra, alla Fondation Medicale, al giovedì o al venerdì, per fare rifornimento e riposare. In quei tre giorni bisognava curasi dalle infezioni, squassarsi di dosso qualche attacco di malaria, noi non avevamo la tempra degli Antaimoro né i loro anticorpi. La vita di brousse, lontano dal nostro ospedale, se presa sottogamba avrebbe anche potuto «ricongiungerci prematuramente ai nostri antenati…».
A volte, io e Giorgio, ci fermavamo a riflettere sui rischi che stavamo correndo: anche un banale incidente, là, in mezzo alla savana, avrebbe potuto trasformarsi in tragedia. Un ribaltamento del trattore, una frattura, una impantanata nella palude che sfilavamo quotidianamente potevano essere fatali. Sarebbe bastato davvero poco. Il sito era quasi irraggiungibile anche con una Land Rover, che avrebbe comunque impiegato non meno di un giorno per recuperare ed evacuare un ferito. Una pioggia forte e improvvisa avrebbe trasformato in mille isolette le colline da attraversare (evento del tutto normale in quei luoghi), impedendo di fatto ogni possibilità di transito. Un giorno, per esempio, rischiammo di perdere l’intero trattore nella palude.

Il baragge era già piuttosto alto sul livello dell’acqua, forse un paio di metri, tanto che avevamo già dovuto scavare il canale di drenaggio per metterci al riparo dalle possibili conseguenze di un acquazzone fuori stagione. Cosa tutt’altro che infrequente. Giorgio, nel tirare la pala, si spinse troppo sul bordo del terrapieno, ancora tenero e friabile. Perse il controllo della motrice nel tentare una frettolosa retromarcia e cominciò a sprofondare lentamente ma in modo inesorabile verso l’acquitrino fangoso, mentre le ruote giravano a vuoto scavandosi la fossa da sole. Eravamo disperati, impotenti di fronte a ciò che stava succedendo. Giorgio aveva perso le staffe e in quelle condizioni diventava difficile anche solo parlargli, cercare di calmarlo.
Iaban’i Boto Misa era atterrito. Con il manico dell’angady (vanga malgascia) stretto fra le mani, quasi fosse l’unico appiglio per salvare la situazione, non riusciva nemmeno a immaginare l’enorme quantità di denaro che potesse valere quella macchina che si stava per essere inghiottita dalla sua terra. Avrebbe forse donato un arto pur di evitare un disastro di quelle proporzioni. Io quel trattore non lo guidavo quasi mai, la mia postazione era quella del «Parker», sul sedile dell’escavatore. Quello sapevo manovrarlo come il mio braccio destro. Merda per merda, rivolgendomi a Giorgio, dissi la mia: «Mettiti al volante, blocca i differenziali e fai andare la presa di forza. Io pianto la benna dell’escavatore sul terrapieno e cerco di trascinare sù, il culo di questo affare».
Giorgio era troppo incazzato per trovare sollievo in un’idea così strampalata, ma non avendo alternative si affrettò a prendere il suo posto, pur continuando a scuotere la testa in segno di disapprovazione.
«Gas! Gas! Accellera!»
Il braccio idraulico dello scavatore, piantato sulla terra più solida, riusciva effettivamente a smuovere l’asse posteriore del trattore dal pantano e a trascinarlo poco a poco verso l’alto. Le ripetute zampate della benna, rovinavano in parte il lavoro portato a termine nei giorni precedenti sul terrapieno, ma, a un certo punto… I grandi pneumatici smisero di girare a vuoto, i tacchetti agricoli fecero presa su un terreo più solido e, come un rinoceronte che si rialza da una pozza di fango, la macchina risalì la china, rimettendosi in piedi. Per un attimo restammo a guardare increduli il nostro Fiat 880, grondante di melma nera e indifferente al resto del mondo, prima di abbandonarci alla gioia e alla commozione per lo scampato disastro.
Quando scendeva la sera sulle colline della brousse, il cielo si tingeva di un rosso infuocato e la luce del tramonto diventava densa come vernice, colorando tutto ciò che investiva con le stesse tinte fiammeggianti del cielo. Per un quarto d’ora almeno, ogni cosa, ogni persona, animale o pianta, diventava di un colore arancio intenso come in un incantesimo. Sembrava di essere immersi in un bicchiere di Aperol.
Gli Antaimoro dicevano che quello era il momento giusto per presentarsi alle persone, per andare a chiedere qualcosa a qualcuno, perché quella luce rendeva tutti più belli e metteva il buon umore anche ai più scontrosi. Era verissimo. La pelle bruna delle gente diventava dorata, i loro occhi brillavano come pietre preziose e le giovani ragazze si fermavano sorridenti, mostrando i seni, col preciso intento di farti innamorare. Io stesso, pallido al loro confronto e stinto come un cencio, diventavo bronzeo come un guerriero Sioux. Era divertente guardare il colore delle mie braccia e delle mie gambe, finalmente un po’ più intonato a quell’ambiente, così lontano dalla terra e dalla gente che mi aveva generato. Poi, lento e silenzioso sopraggiungeva il buio, quello vero, rischiarato solo dalle stelle fuori dalla capanna o da una candela sotto il tetto di foglie. Non c’erano lampadine a rischiarare il cortile, né rombanti gruppi elettrogeni che le alimentassero. I fruscii della notte s’impadronivano di tutto, nel vento che alitava ancora caldo, mentre gli animali notturni lasciavano i loro rifugi per dare inizio alle scorribande di caccia.
Quando sorgeva, la luna poteva illuminare a giorno quegli spazi immensi con la sua luce fresca e argentata. Nelle notti di plenilunio si poteva leggere comodamente anche un libro, senza venir divorati dalle zanzare o da altre mille falene attratte da luci artificiali. Alla Fondation medicale, lo spegnersi del generatore sanciva ufficialmente l’inizio della notte fonda, con un buio improvviso e un «acufenico» silenzio, ma qui, lontano da tutto e da tutti, la notte arrivava da sola, senza bisogno degli uomini.
A volte, dopo che noi avevamo cenato (lui raramente lo faceva), Iban’i Boto Misa, veniva a sedere nella nostra capanna, quella che lui stesso aveva costruito per gli ospiti importanti, come ci riteneva essere, e si concedeva alle nostre domande. Le più discrete erano quelle di Giorgio, che di solito giravano un po’ intorno al nocciolo delle questioni, come si usa fare in Madagascar per essere educati. Un tantino più impertinenti erano invece le mie, che formulavo in maniera un po’ troppo diretta, in un malgascio ancora stentato, alle prime armi.



Imperterrito il vecchio saggio rispondeva a tutti e due, non soltanto in metafore e proverbi, come si conveniva a un vero anziano e come egli avrebbe ben saputo fare, ma anche in modo esplicito, sfacciato avrebbe detto un Antaimoro, ma più chiaro e comprensibile per un occidentale.
Una cosa che faceva infuriare i «reazionari» della tribù, e anche buona parte di tutti gli altri, era proprio che qualcuno, peggio ancora un saggio, andasse a raccontare a degli stranieri – per giunta bianchi – le cose «intime» delle usanze e dei riti tribali. Iaban’i Boto Misa non lo faceva certo per soddisfare la mera curiosità di due europei ficcanaso, ma perché sapeva benissimo che proprio in quelle credenze stava il nodo cruciale del problema, e che soltanto comprendendole avremmo capito con che cosa avevamo a che fare. Il problema infatti, non era costruire uno sbarramento di terra in sé e per sé, ma piuttosto l’evidente volontà di voler sovvertire la natura delle cose. Gli antenati non costruivano barrages. Erano forse più stupidi di Iaban’i Boto Misa?
L’empietà dunque, aleggiava sulla testa di quell’uomo come una malefica aureola. Non sarebbe mai andata giù a nessuno. Il fatto che poi si facesse aiutare da dei bianchi con un trattore rombante, poteva solo peggiorare le cose. Lui rischiava per il bene dei suoi figli, della sua famiglia e di tutta la sua gente, anche quella che non lo accettava, ma noi due? Perché lo facevamo? Il sospetto e la diffidenza degli indigeni ci seguiva come le nostre ombre, ovunque andassimo. Pochissima gente ci poneva la fatidica domanda verbalmente, salvo qualche ubriaco, esautorato dalle buone maniere per effetto del suo stato d’ebrezza, ma tutti la pensavano.
Iaban’i Boto Misa era uno dei pochi indigeni a comprendere lo spirito missionario che animava la vita di Giorgio (io ero solo un giovane amico che lo aiutava). Egli s’era convertito al cristianesimo da tempo, grazie all’etnologo gesuita, Père Du Buois, col quale ai tempi della legione straniera durante la colonizzazione francese, aveva condiviso parte della sua giovinezza. Père Du Buois, aveva convertito Iaban’i Boto Misa, sì, ma era inesorabilmente penetrato nei meandri della cultura ancestrale, condotto per mano dall’allora giovane amico Antaimoro. E, da quell’intricata foresta, non sarebbe mai più uscito. Suo malgrado, in quanto studioso e religioso, si «guadagnò» nell’ambiente ecclesiastico l’appellativo un po’ méprisant (sprezzante, ndr) di: «l’ultimo degli Antaimoro». Ma quella di Père Du Buois è un’altra storia.
Dunque, i veri ostacoli da superare, i nemici da cui guardarsi, non erano le colline della brousse o le alluvioni dei cicloni tropicali e nemmeno la malaria, erano l’animismo fideista e la mentalità di molti uomini della tribù. Troppi, a dire il vero. Se Giorgio e io eravamo visti male da molti di loro, Iban’i Boto Misa sapeva per certo di essere odiato. Alle sue spalle tanti dicevano che, una volta morto, non sarebbe rimasto nella tomba del suo clan per molto tempo, anzi, qualcuno addirittura scommetteva che non vi sarebbe nemmeno entrato. Se c’è una cosa fra gli Antaimoro, ritenuta più grave della morte stessa e più grave ancora dell’omicidio, è proprio quella di non riuscire a entrare nella tomba dei propri avi una volta trapassati e lì, fra le loro anime, poter riposare per sempre. Pur di riuscire in questo intento un Antaimoro è disposto a fare qualsiasi cosa, anche a uccidere se è necessario. Per contro, la presenza di una salma «sgradita», cioè di un defunto che, seppur discendente di quel clan non è ritenuto degno di restare fra i suoi antenati, è una faccenda altrettanto ispida e pericolosa. In Madagascar, alla base di ogni diatriba che finisce nel sangue, c’è sempre una questione di morti e di tombe. Gli sgarri, gli interessi personali, l’astio verso il nemico, sono soltanto un contributo aggiunto al motivo principale.
Il vero movente di ogni omicidio, sta sempre già dentro a una tomba. Oppure nel fatto che, nella tomba, non è potuto entrare.
Una modalità di assassinio che ai nostri occhi occidentali risulta forse più barbara e bestiale dell’assassinio in sé, è proprio quella che si adotta in Madagascar per ammazzare un uomo ritenuto «a tal punto ignobile»:  il cadavere viene smembrato, tagliato a colpi di machete in tanti piccoli pezzi che poi vengono sparsi e buttati in ogni dove, in luoghi lontani, in mare, dove comunque non possano essere ritrovati e ricomposti. Ebbene questa non è esattamente «selvaggia barbarie», ma un preciso – singolarmente «umano» – intento d’impedire l’inumazione.
Forse allora non capivo l’inconsolabile tristezza che si intuiva negli occhi di Iaban’i Boto Misa, ma col passare del tempo, temo di esserci riuscito.
Venticinque anni dopo aver concluso i lavori sul nostro baragge, il Madagascar per me era diventato ormai un lontano ricordo, quando un giorno, mi arrivò una e-mail, forse dall’ufficio di Reggio Terzo Mondo, la sede italiana dell’organismo missionario. La lessi e poi mi guardai le braccia, bianche come due piedi di maiale bolliti che incorniciavano la tastiera; le gambe grasse, sotto la pancia pingue che per un attimo avevo dimenticato di avere. Tanto le cose del mio ufficio quanto gli attrezzi del mio laboratorio riapparvero improvvisamente intorno a me, come se non li avessi mai visti prima. La mail che sembrava venire dal passato remoto, da un luogo lontanissimo di questo mondo, era telegrafica: Iaban’i Boto Misa tornato alla casa del Padre.
Immaginai la strada di terra rossa lungo il fiume che portava al villaggio di Vohimasina e la pista delle colline, in mezzo ai Ravinala, con le loro inconfondibili chiome a ventaglio. La gente urlante e invasata che correva da una parte all’altra, mescolando il chiassoso rito funerario animista a quello cristiano, più silenzioso e composto. Mi sembrava di vedere la portantina di legno con il «feretro» avvolto nel drappo rosso che contraddistingue i Mpanjaka (i re, le persone importanti, quelli che hanno avuto un peso), sollevata dai giovani sopra le loro teste, sopra le loro stesse grida. Un funerale Antaimoro bisogna vederlo, non si può descrivere.
Ma quello non era un funerale come gli altri, non avrebbe potuto esserlo. Le grida e i gli atteggiamenti minacciosi dei giovani nel corteo, non erano il solito formale «decoro» per enfatizzare e dare importanza alla cerimonia. Stavolta sarebbero stati cazzi amari sul serio. Durante i funerali buona parte della gente che segue il corteo è ubriaca, o comunque fortemente alterata dall’alcol, con tutte le logiche conseguenze. A questa sostanza vengono attribuite proprietà espiatorie, sia come liquido da aspersione per i sacrifici, sia per l’effetto disinibente che provoca come bevanda. Da sobri certe cose non si possono né fare né dire, ma da ubriachi è un’altra cosa. Si può tutto.
Com’erano lontane da me quelle immagini, disgiunte dal mio computer, dalle pareti del mio ufficetto, dal portone del mio capannone, così italiano, così emiliano. Giorgio era sempre rimasto in Madagascar, fin dagli anni Settanta quando era partito missionario e lo rivedevo solo una volta ogni tre anni, quando rientrava in Italia per il consueto congé, così non sapevo a chi chiedere, chi chiamare.
Potevo solo restare davanti a quella pagina di Outlook, fissando il cursore che continuava a lampeggiare, dopo aver digitato «rispondi».
Sì, ma a chi?
Passarono altri due anni dalla notizia della morte del nostro amico prima che Giorgio rientrasse in Italia e gli potessi chiedere di persona notizie sull’accaduto. Scosse la testa, un po’ più mestamente di quando il trattore, tanti anni prima, stava per affondare nella palude, e poi disse: «E come volevi che andasse eh? Hanno profanato la tomba portando via il corpo. Era logico no? Nella sua famiglia sono disperati, sai bene che là queste cose non hanno mai fine: si trascinano per generazioni provocando solo disgrazie, guerre in risposta alle guerre. I figli e i nipoti non si daranno pace fino a quando non avranno riportato i suoi resti nelle tomba di clan e suoi oppositori faranno altrettanto e anche di più per tenerlo fuori. Gli Antaimoro non cambieranno mai, Iaban’i Boto Misa era uno troppo avanti, non so dove trovasse il coraggio per fare quello che faceva. Un po’ è anche colpa di noi missionari, bisogna dirlo, ma alla fin fine le scelte credo siano state solo le sue».
Dunque l’incubo di Iaban’i Boto Misa si era avverato. L’ultima cosa che avrebbe voluto, nella vita come nella morte, era che i suoi figli e i suoi discendenti pagassero lo scotto delle sue scelte forse troppo ardimentose. E invece era proprio quello che il destino gli aveva riservato.
Soltanto oggi, a distanza di trent’anni ho sentito il bisogno di mettere in un file, il nome di questo uomo. Il nome del più grande rivoluzionario che io abbia mai conosciuto, prima che si potesse perdere per sempre.
* Davide Boschi

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