martedì 18 giugno 2013

Le memorie di Vollard

Avrebbe voluto fare il chirurgo Ambroise Vollard, ma quando entrò per la prima volta in una sala operatoria, svenne. Ripiegò così sul Diritto. E poiché nell'isola tropicale dov'era nato, primo dei dieci figli di un benestante notaio francese, l'università non c'era, il padre lo spedì a Montpellier, per via del clima più mite di quello di Parigi. La sua isola era la colonia francese della Réunion, un tempo l'Ile Bourbon, al largo (molto al largo; un puntino nell'Oceano Indiano) del Madagascar: un paradiso terrestre dove i bianchi vivevano da re. Quanto a lui, il primo ricordo che ne conservava era quello di un gattino rosso in una distesa di nontiscordardimé: «Allora non avevo idea di cosa fossero i "colori complementari" ma il mio occhio rimase incantato da quell'accostamento cromatico», scriverà. La sua strada era evidentemente segnata: studente svogliato sia a Montpellier che – ben presto – a Parigi, più che nelle aule lo si poteva incontrare fra i bouquiniste dei Lungosenna, intento a comprare stampe e disegni. Ma fu proprio grazie a questa vita da studente scioperato se, dopo un bel po' di fame vera («mangiavo gallette: costavano meno del pane») e più di un transito attraverso minuscole mansarde che erano per lui casa e bottega, Ambroise Vollard sarebbe entrato nel ristrettissimo club dei fondatori del moderno mercato dell'arte; quello che tuttora conosciamo.
Gusto, intuito, amore per il nuovo e per la trasgressione alle mode correnti, oltre a una buona dose di coraggio, aiutarono questo francese d'Oltremare dalla figura pesante e goffa a eccellere nella sofisticatissima Parigi, a dispetto del carattere burbero così ben descritto – seppure "in cifra" – da Gertrude Stein: «Un personaggio imbronciato che sulla soglia della sua bottega, le mani appoggiate allo stipite, guarda i passanti con l'aria di mandarli al diavolo».
Ma a ben pensarci fu forse proprio quel tratto a concorrere alla sua fortuna nella Parigi della Belle Epoque, meta di ricchissimi e viziatissimi personaggi del gran mondo internazionale, dove lui (già con i primi e più modesti clienti e poi più che mai con i grandi collezionisti) aveva messo in atto un sistema infallibile: se un "amateur" tirava sul prezzo, la sua risposta indignata era: «Ma che fa, contratta? Allora questo disegno per lei non è più a 120 franchi ma a 150!». E il collezionista, non si sa come, accettava sempre.
Un'altra sua massima era «mai influenzare l'amatore». L'aveva messa a punto quando uno di essi, entusiasta del «meraviglioso paesaggio cubista» appena acquistato, sentitosi ribattere che era un Uomo con chitarra, stizzito gli restituì il dipinto.
L'autobiografia Memorie di un mercante di quadri, uscita in Francia nel 1937 e ora ripubblicata in Italia da Johan&Levi (pagine 256, € 25,00) dopo le edizioni Einaudi, esaurite, è una miniera di notizie succose su quella Parigi, di cui Vollard con una prosa piana, vicina al parlato, restituisce un'immagine priva di enfasi, cogliendo taccagnerie e bizze dei magnati e umanissimi malanimi di quegli artisti che per noi sono quasi divinità – Cézanne e Renoir (i suoi prediletti), Manet, Monet, Degas, van Gogh, Bonnard e Denis, Vlaminck e Derain, Picasso e Matisse – ma che per lui erano i "suoi" artisti; quasi sempre, poi, salvati dalla miseria proprio dalla sua tutela.
Apprendiamo così, tra mille altri gustosissimi gossip, che l'americano Henry Havemayer, re dello zucchero e grande collezionista, rinunciò a uno spettacolo dell'Opéra Comique perché restava un solo palco per quattro: «Capisce, siamo in tre – spiegò a Vollard –; avrei pagato un posto per niente». E scopriamo che il banchiere Isaac de Camondo, in cerca di (ulteriore) legittimazione sociale attraverso l'arte contemporanea, rifiutò delle Bagnanti di Cézanne: «E queste sarebbero Bagnanti? – obiettò a Vollard – ma se non c'è nemmeno una goccia d'acqua!». Ma soprattutto conosciamo da vicino gli artisti. C'è Degas (che tra l'altro non ama affatto gli impressionisti-Doc: «Renoir? Dipinge con gomitoli di lana»), con il suo caratteraccio: invitato da Vollard a una delle famose cene nella cantina della galleria di rue Laffitte, informali ma assai snob e assai ambìte, gli dettò le regole: «Piatti senza burro, niente fiori in tavola, pochissima luce, il gatto rinchiuso altrove, fuori i cani e signore non profumate. E a tavola alle 7.30 in punto!».
Manet, poi, parigino raffinato, non sopportava il realismo dello "zotico" Courbet («nel Funerale a Ornans ha seppellito tutti: preti, parenti, beccamorti. Perfino l'orizzonte pare dieci piedi sottoterra!») e tanto meno tollerava il rozzo Cézanne. Che a sua volta non faceva che provocarlo, tanto che quando quello gli chiese cosa stesse preparando per il Salon, gli rispose serafico: «un vaso di m...».
Manet non amava nemmeno Renoir: a Monet, che invece stimava, suggerì di invitarlo a cambiar mestiere: «Lo vede anche lei che la pittura non è il suo forte!», argomentò. Ma di Renoir scopriamo qui anche la leggendaria ignoranza: non solo rifiutò di leggere Madame Bovary («sorbirsi 300 pagine per sapere che un farmacista è stato cornificato!») ma nel leggere una recensione di Henri Bergson si lamentò con Vollard dell'insopportabile «abitudine moderna di affidare la critica d'arte a giornalisti di cronaca nera»...
Quanto a Vollard, il suo vero orgoglio pare essere stata l'attività di editore di incisioni e libri d'arte: Verlaine illustrato da Bonnard, Baudelaire e Ronsard da Emile Bernard, Gogol e La Fontaine da Chagall, l'Histoire naturelle di Buffon (oltre a una quantità di altre superbe incisioni) da Picasso, sono solo alcuni dei libri d'artista che pubblicò, ai quali volle aggiungere, da autore, le monografie di Cézanne, Renoir e Degas e una riflessione sulla guerra che nel titolo, Les Réincarnations du Père Ubu, rendeva omaggio allo sfortunato amico Alfred Jarry, uno dei padri, con il suo Ubu Roi, del teatro dell'assurdo.
Fonte: 24 ore
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